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::Continuo a non capire

Viviamo in una società di repressi, bisognosi di sfogare i problemi con soggetti che riteniamo inferiori a noi stessi. Già il fatto che si possa ritenere una persona inferiore è segno evidente di uno stato latente di frustrazione mal celata da machismo. Nell’ultimo “ventennio” abbiamo sentito perle come “civiltà superiore” e sinceramente è bastato abbondantemente vedere all’opera degli individui mandare avanti una nazione da jet privati a spese nostre.
Adesso ci dobbiamo sorbire episodi (episodi?) di violenza gratuita su gente inerme.
Il problema, a questo punto, è passare per quello che scrive il solito pezzo contro la violenza, per la tolleranza, per l’uguaglianza. No. Sia chiaro: non me ne frega niente di predicare idee mie ed evangelizzare il lettore sulla bellezza della diversità.
Il problema, almeno il mio, è capire come mai viviamo ancora fianco a fianco con gente che crede che un gay possa essere deriso o che un ebreo possa essere picchiato. Significa arrogarsi il diritto di decidere che qualcun altro debba soccombere per mano nostra per poi vantarsi del gesto, dell’“aggiustamento”, della “correzione” del frocio o del deportato.
Una risposta c’è, o almeno l’ho trovata negli atteggiamenti italici che contraddistinguono le esperienze quotidiane e le cose che quotidianamente sento blaterare. Sta nella mal celata voglia di un popolo che non ha mai sopportato la sua unità, che vota a sinistra e ciononostante è fortemente vocalista, perché alla fine uno del sud è sempre un “terrone” o spregiativamente “di quelle parti lì”, un africano è un “negro” dal Sahara in giù e “musulmano” se parla arabo.
La risposta sta nella necessità dei giornalisti di specificare la provenienza dei componenti della banda che ha svaligiato tre case in una settimana, tutti ovviamente dell’est europeo e clandestini, per la gioia del lettore frustrato di turno che non vede l’ora di leggere che altri due o tre di “laggiù” hanno rifatto il colpo. Massima goduria se poi sono napoletani (ché tutta la Campania è Napoli, arditamente allargata fino al Molise e financo zone settentrionali della Lucania), a nord del Tevere considerati come il non plus ultra della malavita.
La risposta è nel provincialismo che ho imparato a riconoscere in un popolo che è troppo occupato a guardare gli altri per guardare se stesso. Un popolo preoccupato di sapere i gusti sessuali dell’altro; che perde tempo a capire se una persona è gay o ebrea. Tutte perdite di tempo, correlate al voler capire se uno crede in un dio piuttosto che in un altro, se a uno gli piacciono quelli del suo stesso sesso o no. Il gay pride è il risultato riflesso della inutile discriminazione che gli omosessuali sono costretti a subire. È come se io che sono etero organizzassi una manifestazione per affermare l’orgoglio dei miei gusti sessuali. E aggiungo: chi se ne frega se uno è gay o ebreo? Nel senso: io che sono un datore di lavoro, a che tipo di problemi andrei incontro se assumo un omosessuale o uno che celebra lo shabbat?

Davvero, non riesco a capire.

Mi sforzo, ma non sono in grado di trovare uno solo dei problemi che potrebbero derivare dal fatto che per me lavora una lesbica o un rabbino (ammesso che un rabbino trovi lavoro da me e che soprattutto io sia in grado di offrire un lavoro).
Mi piacerebbe che me lo spiegassero quelli a cuoi interessa se uno è finocchio o meno, quelli che “sanno” la differenza fra uno che va in sinagoga e uno che va in chiesa. Per carità, la so anche io e mi piace anche conoscerla, ma vorrei capire le motivazioni di quegli “illuminati” che non si pongono problemi a picchiare uno che è “diverso”.

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