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La versione di Occupy

La Primavera Araba è stata sempre appoggiata da Occupy Wall Sreet e sebbene il movimento americano sia nato proprio sulla scia delle proteste nordafricane, questo ha fornito da due anni a questa parte il giusto apporto teorico per lo svolgersi di manifestazioni popolari e di piazza come sono avvenute successivamente in varie parti del mondo (Turchia, Bulgaria, Svezia, Grecia) e ultimamente in Egitto, come a chiudere un cerchio apertosi nell’autunno del 2011, quando cioè Zuccotti Park si animò di idealisti che guardavano alle proteste nordafricane con nuovo interesse e che si dichiararono pronti ad accamparsi contro l’“1%”, cioè quella parte, striminzita e oligarchica, che detiene la maggior parte di potere e soldi.

L’impronta di base del pensiero di Occupy nel frattempo non è cambiata: essa parte sempre dall’assunto per il quale ogni regime, sia anche democratico, va sovvertito tramite un’azione congiunta delle persone, riunite per discutere insieme dei problemi e delle loro soluzioni, dimostrare il proprio malcontento nei confronti del potere e di governi assoggettati ai voleri economici delle grandi lobby finanziarie del pianeta. Presa per buona questa posizione, ossia la bella seppur utopica idea di ribellarsi al potere precostituito, Occupy ha sempre combattuto idealmente per una indipendenza dal giogo delle banche e dalla connivenza/sudditanza del governo nazionale nei confronti della finanza e di tutte le sue architetture.

Anche adesso che in Egitto ci sono nuovi sviluppi – quell’Egitto che ispirò le prime occupazioni di Manhattan – Occupy sostiene la piazza e in fondo guarda anche in casa propria, contestando in un frammisto di rabbia e vergogna l’operato del governo Obama e degli esecutivi che l’hanno preceduto.

La prima domanda che Occupy si fa attraverso i propri canali internet è se la destituzione del presidente Morsi è effettivamente un “colpo di stato”, così come molte testate occidentali hanno definito la caduta per mano militare di un presidente eletto democraticamente. Occupy, a parte rimarcare il fatto che le elezioni che hanno portato Morsi al governo sono state presumibilmente pilotate, contrasta l’idea del golpe presentando un numero fondamentale: 33 milioni. Sono le persone scese per le strade egiziane dal 30 giugno in poi e che la notte fra il 3 e il 4 luglio hanno festeggiato la caduta del presidente eletto “democraticamente”: 33 milioni sono le persone che hanno anche aderito al grande sciopero generale che è nato quasi dal nulla, come nulla è l’azione dei sindacati egiziani, incapaci di organizzare mobilitazioni nazionali. Anzi, la parte del leone l’ha fatta Tamarod, il movimento di base che ha mobilitato la popolazione egiziana e che l’ha portata a questo punto, assumendosi la responsabilità per combattere il ritorno al potere dello SCAF, quel consiglio militare egiziano che era stato destituito con la caduta di Mubarak e che adesso paventa il ritorno a scapito dei Fratelli Musulmani.

Allo stesso modo, anche la fazione dei Fratelli Musulmani è malvista dalla maggior parte della popolazione egiziana, in quanto è proprio quella parte di potere che in queste ore viene contestata e che è stata in pratica sconfessata dalle proteste di piazza, ribaltando così le elezioni di gennaio.

Occupy punta il dito quindi sulla distorsione che i media danno della vicenda egiziana: la realtà è che il popolo si sente oppresso fra l’incudine del potere militare e il martello dell’ennesimo gruppo di potere a sfondo religioso. Il fatto che sia islamico è irrilevante e fine a stesso, ma molti americani non lo sanno e quindi gioiscono all’idea della caduta di Morsi in quanto esponente dei Fratelli Musulmani. La mal sofferenza nei confronti dei musulmani americani rende di riflesso accettabile la rivoluzione in atto in Egitto.

Occupy pone l’attenzione quindi su diverse posizioni divergenti fra loro. Una è quella secondo la quale la deposizione di Morsi derivi da un colpo di stato; un’altra è l’idea distorta che l’americano medio ha quando si parla di dimostrazioni anti-islamiste, solo per il fatto che in Egitto adesso sono i Fratelli Musulmani a subire l’attacco di un’intera nazione.

Una terza posizione presentata da Occupy e riccamente criticata è quella che sta alla base della maggior parte dei media occidentali, seconda la quale i paesi arabi e mediorientali sono retti da un’oligarchia militare che detiene il potere con la forza oppure da un’élite religiosa che non riesce a scindere il potere temporale da quello secolare. O meglio, Occupy sostiene che questo paradigma può essere sovvertito ponendo il popolo – quel “99%” che subisce l’uno o l’altro – al centro di questi due centri di potere (religioso e militare) conferendo ad esso la facoltà di farsi finalmente valere come in una vera democrazia, conseguendo cioè il diritto di votare i propri rappresentanti senza brogli, senza ingerenze religiose né timori che gli apparati militari possano condurre la vita politica del paese. Togliendo potere e importanza alle due parti che tengono il popolo egiziano stretto nella morsa fra capi militari e capi religiosi, Occupy sostiene che solo allora una delle proprie teorie potrà essere messa in pratica, cioè quella utopia di non avere più sulla testa un regime capace di soddisfare i propri interessi contro quelli del paese cui è a capo.

Eliminando questi due istituti di potere, Occupy è convinto che anche la politica estera degli Stati Uniti si possa indebolire e dunque anche l’azione post-coloniale a stelle e strisce, basata sui concetti malsani di “esportazione della democrazia” o di “lotta al fondamentalismo islamico”. Privando gli Stati Uniti di alleati e nemici da combattere (in questo caso rispettivamente i Fratelli Musulmani e lo SCAF), allora anche Occupy auspica che la ribellione possa esprimere le proprie forze anche negli USA, rifiutando tutti i poteri precostituiti e riprendendo in mano la guida economica caduta in mano e negli interessi di pochi.

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