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Mo’tel

La vita scorsa in una stanza di un albergo a Wichita è la presa visione di un documento che ci hanno dato appena nati e che ci portiamo appresso fino alla morte, sul quale però possiamo fare solo delle modifiche temporanee, degli emendamenti che possano regalare un piccolissimo periodo di benessere mentale, quella pace che tutti ricerchiamo e chissà perché nessuno riesce mai pienamente a trovare o ricreare appieno. Da una stanza di albergo si possono fare molti pensieri, molte valutazioni; si possono selezionare le scelte passate per applicare le migliori alle situazioni future; si può stare da soli per guardare fuori mentre piove e piangere di rabbia, malinconia o gioia su qualcosa che è accaduto; si può addirittura rifugiarsi da tutto il male, o il bene del mondo e cercare una via di uscita. Nei film americani hotel e motel ce ne hanno fatti vedere di tutti i colori, e ogni storia può aver del vero, anzi, il pensare che ogni storia abbia del vero aiuta, paradossalmente a quanto si potrebbe pensare rispetto a fatti criminosi oppure delittuosi. Il bello è che c’è sempre un’aura di umanità in ogni cosa che succede in quei maledetti motel americani: gente che fa gesti profondamente propri della natura umana. Uccidere è uno di questi. Non importa chi, se se stessi o qualcun altro. Poi c’è il rifugiarsi, come detto prima: mamme che scappano con i figli per un amore materno e si rifugiano in stanze i quali padroni chiedono solamente di avere la pigione pagata; amanti pronti a consumare tresche, lussuriose, clandestine, goliardiche e nessuno, se sono tanto bravi, ne scoprirà mai la fattezza; viandanti con le loro auto scassate, che da Chicago devono andare a Los Angeles e che in due settimane scappano dalla vita quotidiana per godersi la loro libertà in solitudine, o la loro solitudine in libertà, fate voi.

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