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Paura di aiutare

Ero a Parigi una settimana fa. Ho festeggiato il mio primo anniversario di matrimonio nella città preferita da mia moglie, appassionata della capitale francese e mio personale avamposto tutte le volte che si è trattato di parlare con un “indigeno”, vista la mia totale inadeguatezza linguistica per quel che riguarda la lingua in quei posti.
Durante una passeggiata vediamo in lontananza un uomo su una sedia a rotelle, il quale sta cercando di tirare su un sacco pieno di indumenti, preso da un mucchio di altri alla base di un albero.
L’uomo, bianco – è bene sottolinearlo, per fugare ogni recondito sentore di razzismo – è visibilmente in difficoltà, non si muove bene, non tanto perché disabile, quanto per il fatto che i movimenti del busto non sono coordinati. Insomma, non sono tanto pratico in queste cose, ma il livello di handicap non gli permette dei movimenti agili nemmeno con gli arti superiori.
Quando gli passiamo davanti capisco che chiede aiuto, nonostante lo faccia in francese. Lo guardo e gli vorrei dire che non lo capisco. Intuisco però che vuole che lo si aiuti a caricare in qualche modo il sacco di vestiti sulla sua carrozzina. Lo faccio capire a mia moglie, e dopo una titubanza di entrambi, la convinco a farsi dire di cos’ha bisogno l’uomo. Torniamo indietro, glielo chiedamo, e scopriamo che vuole agganciare il sacco dietro la sua carrozzina, ma non ce la fa, sia per il peso del sacco, sia perché il gancio rimane sullo schienale della carrozzina, punto dove oggettivamente farei fatica anche io ad appendere della roba.
Lo aiuto, lo saluto, “merci”, “au-revoir”

A distanza di una settimana nella mia testa rimbomba un pensiero: perché abbiamo avuto paura di aiutare? Perché in un primo momento siamo andati oltre, ignorando la richiesta d’aiuto di una persona innocua in evidente difficoltà?
La prima risposta che mi sentirei di dare potrebbe riguardare il fenomeno dell’accatonaggio, di solito connesso inconsciamente alla molestia, per cui scatta un meccanismo nelle nostre teste per cui qualsiasi disperato che chiede semplicemente aiuto possa costituire un pericolo. Non vuole che gli si faccia l’elemosina, vuole solo una mano, come se chiunque venisse da noi e ci chiedesse l’ora.
Non so perché, ma l’essere innocuo di una persona disagiata che chiede solo che gli si appenda una borsa sullo schienale fa scattare qualcosa che collega questa persona a qualcosa di negativo.
E di questo mi vergogno, almeno un po’.

Poi mi viene da chiedermi perché il pregiudizio venga prima della curiosità di sapere cosa vuole uno che è in difficoltà. Eppure non sono mai stato aggredito, derubato, spintonato. “La colpa è loro, che sono meridionali”, diceva una vecchia battuta.
In un periodo difficile come questo, dove nelle grandi città italiane ci sono problemi dati dalla gestione degli immigrati, quando vengono chiuse le frontiere e sopeso Schengen, quando si vocifera di allarme scabbia e il disagio degli altri diventa un po’ anche il nostro, la “paura del diverso” si impadronisce di noi e allora passiamo sul marciapiede dell’altro lato della strada.
Ecco. Stiamo attraversando la strada e stiamo diventando indifferenti, senza nemmeno sapere se quello ha bisogno che gli si appenda il sacco dietro la schiena, perché da solo non ce la fa.

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